Lo Smartphone e La Fotografia

Recentemente mi sono imbattuto in uno sfogo del giornalista Roberto Cotroneo contro lo scatto con lo smartphone reo di ridurre il livello di qualità globale della fotografia. Secondo il giornalista infatti: “Sta accadendo qualcosa di impressionante, ma nessuno se ne rende conto. Sta accadendo che tutti hanno scambiato le fotocamere dei loro cellulari in macchine fotografiche vere. Con abili campagne pubblicitarie i produttori di smartphone magnificano le doti delle applicazioni digitali e degli obiettivi dei telefonini. Parlano di pixel, aggiungono stabilizzatori, citano l’alta definizione. Gli utenti leggono, provano, e ne sono felici”. E ancora: “Sta accadendo il disastro culturale e concettuale per cui le foto non sono più normali, l’uso della post-produzione è una pacchianata gigantesca, la bellezza di una foto non sta più nella capacità imperfetta di riportare un punto di vista, e non è più in un movimento accennato, nella fatica di entrare nell’inquadratura con consapevolezza, ma è nell’eccessivo che ha la sua ragione: in un uso sommato di grandangoli estremi e di colori saturi”.

Cotroneo, secondo il mio modestissimo parere, ha ragione ed ha torto. Ha torto poichè incorre egli stesso, pur rimproverandolo, nell’equivoco di confondere il mezzo e il tecnicismo, con il contenuto. La qualità della foto non si cela ne dietro i megapixels, ne dietro il fatto che sia scattata da una reflex professionale da 6000 euro o da una compatta ne tanto meno da un cellulare. Lo dimostrano le immagini così incisive e graffianti dei lavori di reportage di Michael Christopher Brown, sulla bocca di molti poichè controverso nuovo alfiere di casa Magnum. I suoi ultimi lavori infatti sono realizzati con moderni smartphone ed editati direttamente col dispositivo.

Ha ragione quando chiama in causa la consapevolezza. Consapevole può essere la scelta stessa del mezzo fotografico, in tal caso lo smartphone. Consapevole può essere la scelta del colore e della saturazione, fin’anche ai limiti dell’innaturale. Le regole auree della fotografia possono essere infrante, ma la chiave sta proprio nel senso stesso della locuzione “infrangere le regole”: si può infrangere solo ciò che si conosce, e l’infrangere deve per forza maturare da una scelta consapevole. Esempi magnifici vengono dalla pittura, Picasso stesso sapeva dipingere alla perfezione secondo canone (e dire alla perfezione è riduttivo), per questo ha potuto spingersi ben oltre il canone creando un nuovo modo di percepire e riportare la realtà. Nell’inconsapevolezza e nella mancanza di “scopo” fotografico invece è nascosto il vero punto. Punto peraltro non nuovo: di foto “inconsapevoli” ne è sempre stato pieno il mondo, ora il fenomeno digitale le ha solo moltiplicate all’ennesima potenza e ne ha ampiamente allargato i confini. E di foto inconsapevoli se ne fanno anche con strumenti più nobili dei camera-phone.

Il mondo digitale in genere ha spostato il baricentro della fotografia verso una fruibilità immediata, verso condizioni consumistico-visive estreme tanto che il valore proprio di uno scatto sussiste solo nell’arco di tempo intercorso tra l’azione di premere il pulsante e l’upload nel social-network di turno. Dopo ciò l’oblio. Come per tutti i mezzi espressivi in fin dei conti la tecnologia ha aumentato a dismisura la possibilità di comunicare, ben oltre le capacità di comunicazione che la nostra società ha maturato. Ci siamo scoperti d’un tratto senza voce nel momento stesso in cui ci hanno offerto centinaia di bocche per parlare.